La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Voina: “Non suoniamo synth pop né siamo mainstream ma sul palco spacchiamo”

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Vederli salire sul palco significa prepararsi al pogo, a dare spazio alla rabbia e a sfogare quelle frustrazioni o ansie che nella quotidianità devono essere nascoste sotto il sorriso e il “grazie” di rito. Significa accantonare l’affannata ricerca della perfezione e abbandonarsi, per qualche ora, allo “schifo”, parola chiave del loro cd d’esordio. Perché i Voina, band della scuderia torinese Inri, lo stile punk-rock lo incarnano alla perfezione. Forse tra i pochi gruppi che non si lamentano della mancanza di certezze sul palco e di un Paese che te le fa solo sognare, per poi, dopo aver sceso le scale, fare una vita “da posto fisso”, con auto a rate ultima generazione e smartphone extra lusso. Lo annuncia, prima di conoscerli, il furgone, con tanto di stereo a cassette, sul quale viaggiano per l’Italia per le tappe del tour, fittissimo (qui tutte le date del tour), e lo confermano loro, quattro ragazzi alla mano, con sorriso e birra, che amano suonare, amano salire sul palco e dare vita al caos, anche al costo di proseguire l’università nei ritagli di tempo e arrabattarsi “tutti quanti con dei lavoretti”, come collaborazioni part-time in aziende in attesa che quella passione diventi un lavoro, quello tanto agognato dalla loro generazione.

Loro che, a differenza delle numerosissime band provenienti dalle zone provinciali – i Voina arrivano da Lanciano (Pescara) – che, superata l’età adolescenziale, si sciolgono per cercare fortuna altrove, tentano di fare di quell’insoddisfazione il liet motiv della loro essenza musicale, con un approccio “mediocre”, ripetendo allo sfinimento “io non ho quel non so che”, senza erigersi a voler diventare portavoce di una generazione “senza senso”, quella nata a fine anni ’80. Ma cercando di raccontarne – prendendo quanto di personale ed esperienziale serva – le difficoltà a doversi confrontare con un mercato del lavoro serrato, una fissazione per gli apericena e i filtri bellezza su Instagram.

Un mood che è racchiuso in tre parole chiave “Alcol, schifo e nostalgia”, titolo eloquente dell’album d’esordio, un campionario di emozioni e di suoni che stanno portando in giro per l’Italia.

Il frontman Ivo Bucci
Il frontman Ivo Bucci

Un lavoro spontaneo – come spiega il frontman Ivo Bucci parlando di un disco “filato abbastanza liscio” – ma consapevole, “siamo stati più oculati, non abbiamo scartato quasi niente perché abbiamo lavorato con la consapevolezza dell’approccio da avere con la scrittura” aggiunge Domenico Candeloro, batterista nonché fratello del chitarrista Nicola che assieme a Daniele Paolucci al basso compongono la band.

Quattro ragazzi, più o meno coetanei, con gusti musicali e caratteri diversi. La domanda sorge spontanea: come fate a convivere?

Ivo: “Siamo cresciuti insieme, a parte Daniele che è entrato nella band da circa un anno e mezzo ed è il più giovane. Domenico e Nicola, con il loro rapporto quasi peggio di Liam e Noel Gallagher, sono quegli amici che non ti scegli, cresci con loro perché abiti vicino o hai fatto le stesse scuole”.

Venite tutti da Lanciano che, come siete soliti ribadire, non offre molto se non noia e mancanza di opportunità. Habitat ideale per far nascere una band. Molte delle band nate in giovane età, però, poi si sciolgono e ognuno va per la sua strada. Voi no. È perché avete scelto di farlo diventare un lavoro?

I Voina
I Voina

Ivo: “Vorrai chiederci, voi perché non vi siete sciolti (ride, nda). Diciamo che sarebbe bello se questo divenisse il nostro lavoro, ma non lo è ancora. Sarebbe bello andare in giro per l’Italia, sui palchi, suonare e lamentarci di quel che non va e farne una professione. Poi, la realtà è che siamo qui perché non abbiamo amici e parenti potenti che ci abbiano trovato un posto di lavoro. Credo sia un discorso generale, se avessi avuto il classico santo in paradiso a 24 anni, quando finisci di frequentare l’università o di fare macello, sarebbe stato diverso. Con quel tipo di aiuto, o un’azienda di famiglia, sarebbe stato difficile portare avanti la band. Oggi facciamo tutti dei lavoretti per alzarci qualcosa. In compenso, però, farlo così ti permette di pensare che non stai lavorando, anche se di rinunce da fare ce ne sono e tante: dalle serate libere, ai weekend ma anche dover rinunciare a momenti importanti dei tuoi cari amici. Può capitare”.

Siete impegnati nel vostro tour, con un cd che, come accade per ogni band, è già passato in quanto le canzoni sono state scritte e registrate mesi fa. Nel frattempo però siete cambiati, siete anche più seguiti. Scegliereste gli stessi temi di rabbia e rassegnazione e le stesse sonorità?

Ivo: “Non dormiamo più sotto i ponti o nel furgone, c’è un certo seguito ma alla fine la vita in generale della band non è che sia cambiata in modo così profondo. Detto questo farei difficoltà a dire che i temi del prossimo lavoro non siano comunque la disillusione e la rabbia perché penso che siano permeanti nell’attitudine dei Voina. Veniamo da una certa tipologia di Provincia e nessuno di noi ha svoltato, magari con quel lavoro statale che rappresenta il grande sogno della nostra vita”.

Avete già iniziato a lavorare al nuovo disco?

“Abbiamo buttato giù poca roba. Ma idealmente non credo sarà tanto più ottimista di quello passato”.

Parliamo dei concetti ricorrenti nel vostro repertorio. Come quello di mediocrità ribadito in “Io non ho quel non so che” e ispirato da “Smells like teen spirit” dei Nirvana. Come si sposa con la ricerca di riconoscimento e successo insita in una band musicale?

Ivo: “Il discorso, che è sì ispirato da Kurt Cobain, va però trasportato nella nascita del punk. Prendiamo i Ramones, quel loro atteggiamento da non sappiamo suonare ma stiamo sul palco e vi apriamo la faccia. Ecco, è quella la mediocrità. È quella consapevolezza che tutti possono farcela. Che anche noi, che non siamo particolarmente belli, bravi, furbi o intelligenti possiamo salire su un palco e far vedere chi siamo. Forse non come le band synth pop ma sul palco spacchiamo. E mi piace il fatto che la gente ci riconosca e si riconosca nelle nostre canzoni. Insomma, io non sono speciale ma non significa che non posso essere felice”.

A proposito del concetto di felicità: nell’ultimo cd chiarite che non è l’aperitivo in centro, il sembrare profondi con frasi “a cazzo” o cercare di essere simpatici sui social. Allora qual è?

Domenico: “È difficile ma sono del parere che se una persona è veramente felice smette di fare tutto. La vera felicità è la ricerca della felicità stessa”.

Ivo: “La felicità è un arrivo”. 

I Voina
I Voina

E la nostalgia che dà il titolo al disco?

Ivo: “Uno stato naturale che attraversa tutte le fasi della vita. Anche mio nipote, 5 anni, rivedendo una sua foto dell’asilo piangendo ha detto “ho nostalgia”. E’ nostra. Come la felicità: è solo legata al ricordo, è difficile legarla al momento. Nel ricordo sta la felicità”.

Domenico: “Per questo non si devono fare foto ai concerti”.

Altra emozione chiave è la rabbia, ma in canzoni come “Il futuro alle spalle” sembra rassegnazione. I Voina quanto sono rabbia e quanto rassegnazione?

Ivo: “Sicuramente quasi pari. Anche altri hanno avuto la stessa percezione ascoltando la canzone ma in realtà è positiva. Fondamentalmente quello che ha spaccato il cervello di questa generazione è stato il sentirsi ripetere: puoi avere ed essere quello che vuoi, basta che ti impegni. Poi ti impegni e capisci che non ce l’hai fatta e che quel tipo di futuro che ti hanno costruito non è reale, è solo una pressione che hai addosso. Il futuro alle spalle è dire: quel futuro è finto, irreale, non esiste. Ora creiamoci un presente reale. È dire divertiamoci, godiamoci il momento”.

Adolescenti ribelli, trentenni insoddisfatti e arrabbiati, c’è un target al quale vi rivolgete?

Ivo: “Il nostro pubblico è molto eterogeneo ed è una salvezza. Sotto il palco ti capita il rocker quarantenne, che magari ti dice di essere impazzito per il disco. L’indirizzo può essere diverso, diciamo che scrivi per i tuoi”.

Domenico: “È quasi una questione anagrafica, poi magari riesci a intercettare anche universitari”.

L’impressione è che oggi, rispetto a dieci anni fa, ci sia più spazio in Italia nella scena punk-rock. È così?

Ivo: “Oggi il mercato indie si è incanalato nella scena synth pop. Come nel ’93 veniva pubblicato qualsiasi disco uscito da Seattle, oggi sta succedendo nell’indie italiano che attraverso il Synth pop sta sfondando nel mainstream. Questo significa che il mercato rock, nell’indie, è piccolissimo, una fettina di torta sottile ma molto selezionata. È difficile che un tuo ascoltatore segua la scena perché magari fa figo. Viene perché gli piaci. Poi, c’è da dire che con l’indie mainstream si è allargata la forbice di pubblico che si avvicina alla band perché appartenendo al mercato indipendente, vieni sfiorato dalla scena indie, come nelle playlist di Spotify”.

Ci sono band italiane che sentite vicino?

“Sì, per esempio gli Zen Circus. Come attitudine, stile di vita, sono simili. Furgone e musica, nonostante siano una band di un certo livello”.

In un’intervista tempo fa parlavate della speranza di avere qualche soldo in più e maggiore stabilità. Oggi, dopo il primo album, li avete trovati?

“Soldi pochi, ma ci sono state cose che ti riempiono, ti fanno respirare. Tipo essere rispettati, trovare persone che ti accolgono bene, ti conoscono, stanno lì sotto al palco. Credo che qualsiasi lavoro possiamo fare nei ritagli di tempo, nonostante siano cose positive – e per la cronaca io lavoro in un’azienda, Daniele fa il meccanico, Nicola studia e Domenico lavora con i bambini – se sotto al palco ti capitano 100 persone che cantano le tue canzoni… beh, in quel preciso momento hai vinto”.

CRISTINA PALAZZO