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Il test sierologico: intervista al presidente del Policlinico di Pavia

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Uno strumento utile a individuare chi ha affrontato il Covid-19. Quindi chi ha sviluppato gli anticorpi necessari per neutralizzarlo, chi può donare il proprio sangue per aiutare i soggetti che, invece, con la malattia stanno ancora combattendo. Si tratta del test sierologico, ben diverso dal tampone che serve invece a portare ad una diagnosi e ad accertare la presenza del virus.

Il test sierologico ha lo scopo di andare a ricercare nel sangue la presenza di anticorpi. In Piemonte l’assessore alla salute Luigi Icardi ha messo a disposizione, dal 5 maggio, i test sierologici a pagamento per i privati cittadini. “Un mezzo che ci porta a un risultato importante”, sottolinea Alessandro Venturi, Presidente del Policlinico San Matteo di Pavia. “Capire chi ha incontrato la malattia e chi ha sviluppato in relazione alla malattia un sistema di protezione. Gli unici anticorpi protettivi sono quelli neutralizzanti. Di questi, ancora oggi, non conosciamo l’effettiva durata”.

Il lancio dei primi test

Nel laboratorio di virologia del San Matteo ai primi di gennaio – quando veniva pubblicato il genoma del virus – erano stati effettuati i primi tamponi. Poi, a marzo, si è arrivati a sperimentare il sierologico, proprio nel momento in cui era divampata l’epidemia presto trasformatasi in pandemia.

“Al Policlinico c’era stata l’intuizione di utilizzare il plasma dei pazienti guariti per curare pazienti che stavano ancora lottando con il Coronavirus. Per far questo era necessario avere un’evidenza di quali erano gli anticorpi che andavano a neutralizzare l’infezione e anche capire, attraverso delle diluizioni del plasma, la quantità più efficace per avere una potenza sufficiente per impedire al virus di replicarsi”, sottolinea Venturi.

Ecco perché nel laboratorio di virologia si decide di effettuare i primi test di neutralizzazione, una metodica che risale agli anni ‘60 ma che ancora oggi solo pochi laboratori d’Italia sono in grado di proporre. 

Fare un test di neutralizzazione significa prendere un virus vivo e metterlo in contatto con le cellule sane per capire come reagisce in relazione agli anticorpi presenti nel sangue. 

“L’azienda DiaSorin, che aveva ideato dei test di neutralizzazione del virus, si è impegnata a “costruire” un’esca, attraverso la proteina del virus, che si immetteva nel sangue per pescare gli anticorpi neutralizzanti. Cioè gli unici in grado di inibire l’azione dello “spike”, lo spuntone che costituisce la forma di corona del virus e di cui il virus si serve per perforare ed entrare nelle cellule e replicarsi”. 

L’azienda, sapendo che il laboratorio di virologia del San Matteo aveva una certa esperienza di “know-how” e un numero di pazienti importante, ha voluto capire come quel test funzionava. Così ha deciso di proporlo proprio al San Matteo. “Grazie a questo oggi disponiamo di un test sierologico che ci permette di quantificare – grazie ad un prelievo venoso –  gli anticorpi neutralizzanti di cui una persona dispone. Questo ci permette di capire se la persona sottoposta al test ha incontrato la malattia, quindi se ha sviluppato gli anticorpi e in che quantità”, continua Venturi.  

Cosa suggeriscono i test

I test condotti finora al San Matteo suggeriscono due cose. “La malattia non è circolata così tanto quanto si potrebbe pensare. Ad esempio, nella zona rossa degli 11 Comuni lombardi molti si aspetterebbero una percentuale di sieroprevalenza – cioè di popolazione che ha incontrato la malattia – molto più alta di quelle effettiva, che invece si attesta intorno al 20-25%. Proiettando questo dato su scala regionale si può ipotizzare che in Lombardia circa 1 milione di persone è stato affetto dal virus. Questo ci riporta un po’ di verità e luce sui numeri che sono circolati finora e che mancavano di un numeratore comune: la cifra totale dei contagiati. Inoltre, ciò ci fa capire che in regione il 90% della popolazione è ancora esposto al rischio perché non ha contratto la malattia. E che dunque siamo ancora molto lontani dall’immunità di gregge”.

Dal 23 aprile l’uso dei test è partito in Lombardia. I primi fruitori sono stati il personale sanitario e un gruppo di popolazione individuata dagli epidemiologici nelle 4 province lombarde più esposte all’epidemia.

“Sono state scelte, in particolare, quelle persone che si erano autoisolate oppure messe in quarantena ma che non erano state preventivamente tamponate. Quindi persone che, potenzialmente, potrebbero aver sviluppato la malattia ma che non avevano avuto una diagnosi da Covid. I dati riscontrati e analizzati finora in Lombardia ci dicono che il 50% di questo gruppo ha incontrato la malattia e quindi sviluppato gli anticorpi. Invece, tra il personale sanitario la sieroprevalenza si attesta su quella che ci si aspetta di incontrare sul totale della popolazione, cioè intorno al 10% . Quindi il rimanente 90% è tuttora esposto e suscettibile al rischio”, sottolinea Venturi.

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Ora il San Matteo è in attesa di estendere lo screening ad altre tipologie di soggetti: forze dell’ordine, lavoratori e impiegati in quelle attività produttive che sono tornate e torneranno a breve ad operare. “Come san Matteo ci stiamo impegnando a sottoporre a test altri gruppi residenti nella zona rossa per ampliare il bacino di potenziali donatori di plasma che presentano gli anticorpi in grado di neutralizzare il virus. Questo sarà ancora più utile nel caso dovesse manifestarsi un nuovo aumento dei contagi, soprattutto con l’arrivo della stagione autunnale”. 

I test da soli non bastano

Questo però, fa capire Venturi, non significa che i cittadini debbano rimanere reclusi fino a quando avranno sviluppato l’immunità di gregge o fino a quando il contagio cesserà. “Se è vero che  i  ⅘ della popolazione non ha ancora incontrato la malattia, e che è quindi suscettibile di contrarla, è altrettanto vero che in questa fase due, inaugurata il 4 maggio, dobbiamo imparare a convivere con il virus. Un virus che non sparirà e da cui dobbiamo proteggerci assumendo degli atteggiamenti responsabili nelle nostre attività quotidiane”. 

Il test seriologico, tra tutti gli strumenti di cui il sistema sanitario dispone attualmente, non può e non deve essere l’unico con cui governare la fase di riapertura.

“Si tratta certamente di un utilissimo mezzo per la ripartenza che rimane però complementare ad altri. Soprattutto, il test non deve rappresentare una corsa a togliersi una curiosità. Invece, oggi, sempre più cittadini pensano di ricorrere questo tipo di test, peraltro nella sua forma meno attendibile – quella rapida tramite un minimo prelievo di sangue dal dito che ha una scarsissima attendibilità e che dice poco rispetto alla specificità degli anticorpi di cui disponiamo”. 

Convivere col rischio

Per Venturi, ai fini della ripresa e del ritorno ad una vita “normale” l’unica misura efficace è cambiare la cultura, per imparare a convivere con il rischio.

“Dopo l’attentato dell’11 settembre – suggerisce il presidente del Policlinico pavese – non abbiamo smesso di prendere l’aereo ma abbiamo modificato radicalmente la mobilità internazionale. Allo stesso modo, oggi dobbiamo convivere con un altro rischio, ovviamente cercando di mitigare la possibilità che il virus possa colpire in maniera aggressiva. Per farlo, abbiamo solo uno strumento, cioè le misure che ci ricordano ad oltranza le istituzioni, come il distanziamento fisico, le protezioni del viso e una igiene personale accurata. Dobbiamo proteggerci, considerandoci tutti esposti alla possibilità di contrarre l’infezione e quindi tutti potenzialmente contagiosi. Solo così potremo tutelare noi stessi e la collettività nel suo complesso”. 

RICCARDO LIGUORI