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Salone del Libro, Lagioia: “Continuare dopo giugno? Dipende, voglio garanzie”

Rivitalizzare il Salone del Libro? “Fatto”. Riportare a Torino i grandi editori? “Fatto”. Nicola Lagioia si sfila gli occhiali neri da Clark Kent “perché ci vedo male da vicino e bene da lontano, li tolgo per vedere nel futuro” e immagina un Salone ben più lungo dei cinque giorni del Lingotto. Il prossimo obiettivo del direttore editoriale è plasmare la kermesse libraria per trasformarla in un laboratorio a ciclo continuo, una factory che sforna contenuti sullo stile di quella inaugurata da Andy Warhol a Manhattan negli anni Sessanta. Alla vigilia della 31ª edizione del 10-14 maggio e con un contratto in scadenza a giugno, Lagioia è già orientato verso cosa verrà dopo. “Le fiere editoriali hanno successo perché riempiono il vuoto lasciato sul territorio dalla politica, colmando quel bisogno di comunità un tempo garantito dai partiti tradizionali – spiega lo scrittore barese –  Vorrei che il Salone fosse un polo culturale per 365 giorni l’anno”.

La scelta del titolo 2018 “Un giorno, tutto questo” va in questa direzione?
“Sì. Oggi è come se fossimo intrappolati in un eterno presente e per questo abbiamo chiesto ad alcune delle migliori menti del pianeta di ragionare sul futuro. Sono cinque domande: le stiamo raccogliendo su un sito web, 5domande.it, ma organizzeremo anche una mostra alle Ogr e un ciclo di conferenze al Lingotto. Inoltre quest’anno pubblicheremo un libro, “Parole ostili”, edito da Laterza. Le città di cultura hanno il dovere di produrre contenuti: vorrei che Torino seguisse l’esempio di altre realtà come Barcellona e Manchester”.

E pensare che quando lei è arrivato, a ottobre 2016, il Salone sembrava a un passo dal baratro. Ha mai temuto potesse scomparire?
“Non ho mai creduto a quelle voci, anche se i giornali di allora ci davano per spacciati. Mi sembrava irrealistico perché il Salone del Libro è un’istituzione non solo torinese, ma nazionale ed europea: dopo quella di Francoforte è la fiera editoriale più importante del continente. E anche dopo il successo della scorsa edizione nessuno avrebbe scommesso sul ritorno dei grandi editori: eppure, siamo ancora la punta di diamante delle manifestazioni editoriali in Italia”.

Anche quest’anno avete avuto qualche difficoltà tra l’affitto del Lingotto e la crisi della Fondazione. Com’è stato lavorare con una spada di Damocle sulla testa?
“Qualche difficoltà? Ne abbiamo avute tantissime. Dopo il trionfo del 2017 io e la mia squadra ci aspettavamo di lavorare in un clima più sereno. Invece, la messa in liquidazione della Fondazione del Libro ha causato sospensioni e ritardi degli stipendi, debiti con fornitori e altre situazioni spiacevoli. Alla fine abbiamo portato a casa il Salone e questa è la cosa più importante. Vedremo se a giugno, quando scadrà il contratto, ci saranno i presupposti per continuare il rapporto”.

Se le offrono il rinnovo accetta?
“Dipende dalle condizioni. Regione e Città ci hanno chiesto fiducia e noi gliela vogliamo dare. Però bisogna passare dalle parole ai fatti: in primis ci devono dire quale sarà l’istituzione che si occuperà del Salone a partire dal 2019, in modo che finisca questa fase di transizione. Secondo punto: dobbiamo discutere dell’organizzazione della parte editoriale. E poi bisogna uscire in fretta da questo imbarazzo”.

In che senso?
“Io e la mia squadra ci mettiamo sempre la faccia, in ogni occasione. Questo va bene se si parla della parte editoriale, ma con i fornitori è un’altra musica: spesso riceviamo lamentele da persone che magari non sono state pagate tre o quattro anni fa, quando non c’eravamo nemmeno. Oltretutto la questione debiti ci riguarda in prima persona: il capitano di una squadra può chiedere ai suoi giocatori di scendere in campo per qualche partita senza percepire gli stipendi, ma di certo non lo può fare per un anno intero. La situazione deve cambiare”.

Cosa significa essere il capitano?
“Se non devo fare lavori diversi dal mio, come è capitato spesso in questi due anni, vuol dire solo cose belle. In particolare amo prendermi dei rischi e schierarmi culturalmente. Come l’anno scorso, quando ci siamo posti in modo critico verso l’amministrazione Trump”.

Tra i tanti nomi che ha ha portato al Salone c’è un “no” che le è pesato più di altri?
“Il rifiuto di un grande autore non fa mai male perché parti sempre dal presupposto che sia troppo impegnato per venire. Mi piacerebbe portare a Torino Noam Chomsky, così come l’imprenditore Elon Musk. Quest’anno ci abbiamo provato, senza successo, con Yuval Noah Harari, lo studioso di scienze che ha immaginato il mondo del futuro. Però per un’idea che non ti riesce, ce ne sono altre cinque o sei che vanno in porto. Per esempio, chi l’avrebbe mai detto che Javier Cercas ci avrebbe regalato una lectio magistralis sull’Europa o che Edgar Morin sarebbe venuto al Salone a 96 anni?”

Cosa ha dato il Salone del Libro a Nicola Lagioia?
“Qualche capello bianco in più. A parte gli scherzi, l’impatto è stato tosto: mi ricordo l’anno scorso quel mare di gente ai cancelli, una botta emotiva difficile da descrivere. Di certo, oltre che una sensazione bella è stata anche violenta, perché all’improvviso ti trovi a gestire qualcosa di molto più grande di te”.

Un giorno racconterà queste emozioni in un libro?
“Uno scrittore che dirige una grande manifestazione ha la fortuna di capire come funzionano alcuni meccanismi umani: ad esempio interloquire con la politica o con le banche. È un’esperienza che mi ha cambiato la vita e per questo potrei utilizzarla per una storia che non c’entri necessariamente con il Salone”.

Dopo due anni che effetto le fa Torino?
“Una volta mi dissero che Torino non è una piccola Parigi ma una grande Cuneo. Da una parte mi sembra anche una grande Seattle, una città che sperimenta in continuazione, che si inventa cose che non accadrebbero nemmeno a Parigi. Dall’altra è diffidente, fatica ad aprirsi. È come se vivesse un tormento, che però non fa emergere perché è educata e rispettosa delle forme. Ecco, io di solito le forme tendo a non rispettarle e per questo all’inizio ero in difficoltà. Poi ho capito che il mio modo di fare poteva essere utile alla città e ho scelto di non snaturarmi”.

CAMILLA CUPELLI
FEDERICO PARODI