Tre esperti di psicologia delle folle spiegano cosa è successo in piazza San Carlo

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“Il panico alla finale di Champions ci insegna due cose. La prima è che nelle folle il contagio emozionale amplifica il panico. La seconda è che la paura del terrorismo è diventata una delle categorie mentali con cui leggiamo il mondo”.

Adriano Zamperini è professore all’università di Padova, dove tiene corsi di psicologia della violenza e relazioni interpersonali. È uno dei maggiori esperti in Italia di psicologia delle masse e sa come interpretare da un punto di vista scientifico i fatti di piazza San Carlo durante la finale di Champions League.

Gli inglesi hanno un nome per fenomeni di questo tipo. Li chiamano “stampede”, un termine che può suonare dispregiativo perché si applica sia alle mandrie di animali che alle folle di uomini. In italiano si traduce con espressioni come “fuggi fuggi” o “fuga precipitosa”.

Sabato 3 giugno Torino è entrata nella lista di “human stampedes” di Wikipedia, in compagnia di episodi simili ma a volte più gravi. Nel 2015, nei pressi di La Mecca, più di duemila musulmani sono morti travolti dalla folla durante l’Hajj, il pellegrinaggio sacro. Nella stessa celebrazione, ma nel 1990, circa 1400 fedeli hanno perso la vita in un tunnel lungo mezzo chilometro e largo appena dieci metri. A Santa Maria, in Brasile, 242 persone sono rimaste schiacciate o soffocate dall’eccessivo numero di presenti in un nightclub, dove gli effetti pirotecnici di un concerto hanno provocato un incendio.

Il caso di Torino, nonostante i molti feriti, non è grave quanto altri rimasti nella storia. Però le dinamiche sono in parte simili.

“Essenzialmente sono due le ragioni che innescano la reazione della folla”, spiega Angelica Mucchi Faina, il cui libro “La psicologia collettiva. Storia e problemi” è una lettura fondamentale per chiunque studi il comportamento delle folle.  

“L’impressione che non ci sia spazio per tutti e manchino le vie di uscita contribuisce a peggiorare le cose. Ma anche la comunicazione verbale e non verbale di chi ci sta intorno amplifica la paura”.

Il fenomeno si chiama influenza informativa. Nicoletta Cavazza, insegnante di psicologia sociale all’università di Modena e Reggio Emilia, spiega che è indispensabile per organizzare il comportamento di un gran numero di persone: “Quando siamo in un fast food, guardiamo gli altri per capire dove si prende il vassoio, dove si fa la fila o dove si paga. In altre parole il comportamento delle persone che ci circondano riduce l’ambiguità della realtà. Tutto cambia quando diamo per scontato che gli altri sappiano qualcosa che non sanno. Così è stato in piazza San Carlo, dove le ragioni della fuga erano sconosciute, ma capita anche in altri contesti. Immaginiamo, ad esempio, che stia spiegando una lezione in modo poco chiaro: può capitare che uno studente si guardi intorno, ma vedendo che nessun altro si gira, crede di essere l’unico a non aver capito. In questo caso l’influenza informativa è disfunzionale. Ma è un processo continuamente in atto”.

L’incidente accaduto nel 2015 a Mina (nei dintorni di La Mecca) è il più grave “stampede” di cui siamo a conoscenza. È stato provocato dall’incontro di due masse di pellegrini provenienti da direzioni opposte. Quindi nella dinamica scatenante manca un elemento che, nel caso torinese è piuttosto evidente.

“Dobbiamo ammettere che, a causa degli attentati, abbiamo interiorizzato un senso di pericolo permanente”.

È uno degli effetti dei media in una realtà sempre più interconnessa: secondo il professor Zamperini c’è “un’autostrada psicologica” che arriva nelle nostre case passando per gli schermi di tv e computer. I mezzi di informazione la percorrono per sensibilizzare gli spettatori con le biografie delle vittime e altri contenuti “emotivi”. Ma anche i terroristi si muovono lungo lo stesso percorso.

“Chiunque si sente in pericolo se gli attentatori colpiscono nel mucchio. Dobbiamo ammettere che tramite tv e giornali partecipiamo a un clima di paura che supera i confini geopolitici. Quello che è successo a Torino è la spia di un’emozione collettiva: la sensazione di essere costantemente in pericolo. Se leggiamo con queste lenti le immagini del giovane, che, indossando uno zainetto, ha creato il vuoto intorno a sé, capiamo che il suo gesto è stato irrilevante dal punto di vista penale ma non trascurabile dal punto di vista emotivo”.  

Quali precauzioni e rimedi può suggerire la psicologia delle folle?

Per il professor Zamperini, i principi che derivano da questa scienza vanno studiati nelle scuole: “L’educazione civica deve insegnare come ci si comporta in situazioni ordinarie e straordinarie. Durante un episodio simile a quello di piazza San Carlo dobbiamo sapere come muoverci per ridurre i rischi, come comportarci al pronto soccorso e come gestire le emozioni”. A volte basta che gli addetti alla sicurezza lavorino in modo corretto, ad esempio indicando percorsi, per gestire meglio il flusso delle persone. Una lezione che i terroristi, invece, hanno imparato e applicano in negativo: “Ha presente bomba tandem? Scoppia un primo ordigno leggero per far muovere la folla verso la bomba vera, destinata a fare morti e feriti. I terroristi che l’hanno progettata sanno bene che in una situazione di emergenza il movimento della folla non è casuale, ma segue una segnaletica ben precisa, umana e ambientale”.

GIUSEPPE GIORDANO