Proteste a Hong Kong e tensioni internazionali. Perché è sbagliato parlare di nuova guerra fredda

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I giornali italiani titolano: “Il pugno di ferro di Pechino su Hong Kong“. È la sintesi delle rivolte non autorizzate esplose in questi giorni per le strade della metropoli della regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Migliaia di persone sono scese in piazza contro le autorità locali e contro la Cina, accusata di voler aumentare il suo controllo sulla regione. Gli attivisti pro-democrazia protestano contro la legislazione cinese sulla sicurezza nazionale, in discussione al Congresso del popolo di Pechino, che punterebbe a limitare ulteriormente l’autonomia dell’ex colonia britannica. La bozza legislativa sanzionerebbe i tentativi di secessione reprimendo ogni dissenso.

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La protesta dei mattoni

La narrazione degli scontri si è concentrata in gran parte sulle reazioni dure della polizia. Amnesty International ha criticato gli arresti di massa, accusando gli agenti di usare una “forza eccessiva” contro i manifestanti “in gran parte pacifici”. Ma alcuni attivisti hanno messo in campo barricate, blocchi stradali e non sono mancati lanci di mattoni. Secondo le autorità e il governo locale alcuni negozi del quartiere dello shopping Causeway Bay sarebbero stati oggetto di vandalismo, con le vetrine spaccate a mattonate. Danni registrati anche a Wan Chai. “La polizia non chiude gli occhi davanti ad atti illegali e violenti e ammonisce di astenersi da qualsiasi minaccia alla pubblica sicurezza e alla pace pubblica”, dichiarano le forze dell’ordine in un comunicato.

La rabbia dei manifestanti è stata probabilmente alimentata dalle dichiarazioni del vicepremier cinese Han Zheng, uno dei sette membri del Comitato permanente del Partito comunista, che ha in carico la gestione dei rapporti con l’ex colonia: incontrando a Pechino i delegati di Hong Kong ha assicurato che la normativa in via di discussione non dovrà essere sottostimata, ma “attuata fino alla fine senza il minimo ritardo”. Tempo fino al 28 maggio. Gli attivisti chiedono che la proposta di legge sia ritirata.

Francesco Sisci, sinologo della China People University, osserva che “da Pechino non amano la reazione di Hong Kong e per questo sono ricambiati. La distanza crescente tra Cina e Hong Kong è parte del problema”.

 

Il modello “Un Paese, due sistemi” reggerà?

La nuova legge della Cina sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, la cui bozza è stata depositata al Congresso nazionale del popolo, sanzionerà secessione, eversione contro lo Stato, terrorismo e interferenze straniere, diventando operativa con la sua aggiunta all’Allegato 3 della Basic Law, la mini Costituzione di Hong Kong. La legge, riferisce Ansa, trova il favore della governatrice locale Carrie Lam secondo cui “svolgere i compiti di mantenimento della sicurezza nazionale e garantire la prosperità e la stabilità a lungo temine di Hong Kong, nel quadro del modello ‘un Paese, due sistemi'”, rappresentano le priorità.

‘Un Paese, due sistemi’ è il modello adottato nel 1979 dal leader comunista cinese Deng Xiaoping nell’ambito delle trattative tra Repubblica Popolare Cinese e Regno Unito che condussero al ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese. La formula sintetizza un duplice concetto: da un lato viene affermata l’unicità della Cina come soggetto politico, dall’altro si concede che all’interno di un territorio sottoposto a un’unica sovranità possano esistere delle aree amministrate secondo un differente ordinamento istituzionale e contraddistinte da un diverso sistema economico. “Un Paese, due sistemi” è l’equilibrio sottile su cui si regge l’autonomia di Hong Kong.

 

Le reazioni internazionali

“Xi Jinping e la sua corte hanno sempre considerato la libertà di Hong Kong come un problema esistenziale, perché Hong Kong rappresenta tutto ciò che loro odiano di più al mondo: democrazia, libertà di stampa e di espressione, tutela dei diritti umani e un sistema giudiziario garantista”, sostiene Christopher Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong ed ex leader del Partito conservatore inglese. Patten è tra i firmatari di una lettera aperta che denuncia il disegno di legge anti-sedizione come un “assalto globale all’autonomia, allo stato di diritto e alle libertà fondamentali della città”.

Così le proteste a Hong Kong sono diventate il pretesto per riacuire le tensioni tra i due giganti Stati Uniti e Cina. Il giornale The Guardian ha raccolto le dichiarazioni del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il quale accusa Washington di danneggiare il rapporto con Pechino e paventa il rischio di una “new cold war” (nuova guerra fredda). Wang Yi accusa gli Stati Uniti di diffondere teorie cospirazioniste e false sull’origine del Coronavirus.

Mentre gli Usa rispondono con Robert O’Brien, il segretario alla sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, che valuta sanzioni contro la Cina. “Sembra che con questa legge sulla sicurezza nazionale la Cina assumerà il controllo di fatto di Hong Kong” – ha dichiarato O’Brien in una intervista al programma televisivo “Meet the Press” dell’emittente Nbc News -. Se lo faranno, il segretario di Stato Mike Pompeo non sarà in grado di certificare che Hong Kong mantiene un elevato livello di autonomia, e in tal caso verranno imposte sanzioni ad Hong Kong e alla Cina”.

Il leader delle proteste di Hong Kong, Joshua Wong, invita l’Unione Europea a seguire la via delle sanzioni e all’Italia chiede di ridurre la cooperazione con la Cina sulla Via della Seta.

 

Si può prevedere una “nuova guerra fredda” tra Usa e Cina?

Viviamo in un contesto di tale imprevedibile (dis)ordine internazionale. Possiamo prevedere una “nuova guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina? La professoressa Anna Caffarena, del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino trova che la locuzione “guerra fredda” sia impropria e ampiamente abusata. “Circola da moltissimo tempo – fa notare – ma non credo sia una buona idea utilizzare una formula che richiami il passato. Oggi assistiamo a condizioni molto diverse rispetto all’epoca della guerra fredda tra Stati Uniti e Russia. Quella era una condizione molto stabile in un certo senso, anche se di profondissimo antagonismo che comportava grandi rischi. Questa invece è una situazione che ha margini di incertezza elevatissima. Più che di guerra fredda parlerei di guerra commerciale”.

NICOLA TEOFILO