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Guerra, giornalismo, vita. Francesca Mannocchi: “Dopo i moltissimi insulti sto pensando a una pausa dai social”

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Francesca Mannocchi: reporter, scrittrice, regista. È uno dei volti del giornalismo di guerra in Italia, ed è da mesi in prima linea nel raccontare l’invasione russa dell’Ucraina cominciata il 24 febbraio. L’abbiamo intervistata in occasione della 34° edizione del Salone del Libro di Torino.

Francesca, lei ha raccontato guerra, potere e tragedie umanitarie in molti contesti internazionali. Le guerre, e il mondo, alla fine davvero non cambiano mai?

Le guerre hanno degli elementi in comune che dovremmo essere in grado di poter leggere e poter decodificare. Dopodiché le guerre vanno inserite sempre in un contesto, e il contesto va sempre studiato e conosciuto, perché determina le ragioni profonde dei conflitti. Ma la ferocia e la brutalità delle guerre hanno delle radici comuni, che è quello che dovrebbe interessarci non tanto quando andiamo a osservare, bensì quando andiamo a interpretare delle zone di conflitto, cioè dovremmo cercare di trovare in quelle zone di conflitto degli elementi che già conosciamo.

Cosa l’ha portata ad essere inviata? Questa professione l’ha cercata o è arrivata per caso?

La professione l’ho cercata. Alcune cose sono arrivate per scelta, alcune per caso. Quella che è arrivata più per scelta è stata quella di auto-inviarmi, e cioè decidere di tornare a lavorare come freelance ma perché avevo bisogno del mio tempo, e credo che oggi, ben più che la determinazione o insieme alla determinazione di un gruppo editoriale e insieme ovviamente ai fondi – che vanno stanziati, perché per essere inviati c’è bisogno di fondi –, il tempo sia l’altro ingrediente necessario al buon giornalismo. Sempre, non solo per gli esteri.

Oggi social network e opinionisti da ogni parte ci illudono di poter capire la guerra da lontano. Che ruolo ha la presenza dell’inviato oggi?

Sto seriamente pensando, dopo la caterva di insulti che non mi era mai capitato di ricevere in relazione a questa guerra, di prendermi una pausa da tutti i social network, di qualche mese. Credo che sia un processo di igiene depurarsi anche dall’idea del consenso, non solo dall’idea dell’insulto.

Alla sofferenza altrui ci si abitua mai?

Purtroppo sì. Sarebbe ipocrita dire il contrario. Il rischio dell’assuefazione è molto alto, e l’assuefazione fa il paio con l’incapacità di narrazione. Quindi io credo che un elemento importante di un buon giornalista – inviato all’estero o in Italia non cambia molto – sia riconoscere il momento in cui c’è bisogno di una pausa. Perché noi dobbiamo prenderci cura della nostra emotività per poter raccontare meglio quella degli altri.

Lei era in Ucraina da prima dell’inizio del conflitto. Come è stato trovarsi in mezzo a una guerra di punto in bianco?

Eravamo lì da giorni prima, perché purtroppo questa guerra era nell’aria. Quindi stavamo vivendo quei giorni di attesa di qualcosa che è stato evocato e, come ho scritto in un articolo per La Stampa, sembrava di stare in un film di Herzog che si chiama La Soufrière, quando Herzog arriva su questo vulcano per assistere a un’eruzione incredibile che non si verifica mai. Quindi abbiamo vissuto dei giorni in attesa di qualcosa che poteva verificarsi da un momento all’altro o mai, e poi il 24 febbraio mattina, a Kramatorsk, siamo stati svegliati dalle bombe. Quindi abbiamo vissuto questa doppia emozione del “è davvero iniziata” e “lo sapevamo che sarebbe iniziata”.

Molti suoi colleghi hanno promosso, anche in maniera attivista, un approccio alternativo alla narrazione “bellicista”. Oggi il pacifismo è sostenibile?

Il giornalista non è un attivista. Questo delimita già il margine della risposta. Un giornalista non deve essere attivista di nessuna causa, un giornalista deve raccontare quello che vede.

Dopo l’immane sforzo profuso nell’accoglienza dei profughi ucraini, cosa pensa del diverso approccio dell’Unione Europea nei confronti dei migranti?

Penso che tutto questo sia la cartina al tornasole di una ipocrisia di fondo che c’è stata in Europa in questi anni, e cioè non abbiamo voluto chiamare le cose con il loro nome. Dietro al rifiuto delle persone che arrivano dal mediterraneo più che il no alla migrazione c’era il no all’uomo nero. Era una forma di razzismo. Dovremmo chiamare le cose con il loro nome.